Uno dei passaggi più citati della Dichiarazione d’Indipendenza americana è anche uno dei più fraintesi: Thomas Jefferson non ha messo nero su bianco la felicità come diritto inalienabile dell’uomo, ma ha sancito che è un diritto delle persone essere messe nelle condizioni di perseguirla. Diversamente avrebbe dovuto anche tentare di definire quello che è il più grande e sfuggente sogno filosofico degli esseri umani al punto che le grandi religioni monoteiste ci dicono che la felicità non è di questo mondo, salvo prometterla nell’Aldilà. Comodo così.

Filosofi, poeti, artisti, l’uomo della strada, si sono interrogati su questa condizione che pare avere tanti termini cugini: realizzazione, benessere, gioia, euforia, contentezza, ma che tuttavia non promettono quel quid in più che intravediamo nel termine “felicità”. Forse l’amore quando è ricambiato si avvicina a darcene la misura, ma il problema non è solo individuare il preciso stato d’animo che può essere etichettato come “felice”, ma anche cercare di capire come raggiungerlo. Il Governo degli Stati Uniti si impegna a dare ai propri cittadini i mezzi per perseguire la felicità, il come e cosa farne di questi mezzi è però rimesso nelle decisioni dei singoli. Ma siamo davvero i migliori giudici di noi stessi quando si tratta di agire per il nostro bene? Forse no. Forse sarebbe meglio che le indicazioni arrivassero dall’esterno in modo asettico, scevro da paure, emozioni, errori di valutazione e dubbi in un modo che solo una macchina non influenzabile potrebbe fare.

Ecco dunque che la Macchina della Felicità Katie Williams introduce in un futuro non troppo lontano l’esistenza di un prodigio tecnologico, l’Apricity: grazie a un campione di DNA l’apparecchio riesce a elaborare le direttive da seguire per essere felici, e poi ancora più felici perché, come insegna Don Draper, la felicità è il momento prima di avere bisogno di più felicità.

Pearl da anni è addetta alla gestione dell’Apricity e sa che l’apparecchio può impartire indicazioni curiose, spiazzanti, dalla difficile attuazione. Le direttive possono dunque essere un cambia casa, sposta la scrivania dell’ufficio, ma anche divorzia dal tuo coniuge, oppure tagliati una falange. I clienti che si rivolgono a lei devono quindi essere assistiti, qualche volta perfino un po’ convinti ad accettare di compiere i passi necessari per andare incontro alla loro felicità.

Ma Pearl è felice? Dovrebbe esserlo visto che la felicità è il core business del suo lavoro e tutti i suoi clienti si avviano, presumibilmente, verso un’esistenza felice. La donna ha un figlio, Rhett, anoressico avuto dal suo ex marito Elliot che continua a essere una presenza costante nella sua vita non solo come padre, ma anche perché Elliot è uno di quei tipi che lasciano – l’uomo è ora sposato con Val – ma non vogliono scomparire dall’esistenza dell’altra persona. Non sembrano dunque tre persone felici, forse Elliot è quello che inizialmente ci sembra quanto meno il più soddisfatto.

Il punto è che non tutti decidono di rivolgersi all’Apricity – cosa che per altro ha un suo costo – ed è anche per questo che la compagnia che ne detiene il brevetto decide di puntare molto su una campagna promozionale in cui la giovane star del cinema Calla Pax è stata scelta come voce per rendere il loro apparecchio più famigliare e vicino alle persone. Conosciamo quindi Calla e siamo curiosi di scoprire se almeno lei sia felice. Nel pensiero corrente l’essere giovani, belli, ricchi, di successo, dovrebbe proprio essere la combinazione giusta per aprire la cassaforte in cui è custodita la felicità. Però la diva sembra molto problematica, forse perché nel suo paniere manca l’amore, oppure perché la ragazza vive sulla sua pelle non solo il successo, ma anche i danni collaterali che la popolarità si porta dietro.

L’essere umano è complesso e contraddittorio perché complessa e contraddittoria è la vita, tutto ciò che accade produce una catena di reazioni difficile da gestire, ed anche gli avvenimenti che sembrano più desiderabili prima o poi vengono contaminati da influenze e interferenze esterne. Ed è anche per questo che l’Apricity, nonostante sia il prodotto di una tecnologia d’avanguardia, è un oggetto avvolto di filosofico mistero per il modo in cui riesce – o dovrebbe riuscire – a determinare chirurgicamente l’esatta azione necessaria nel caso specifico. Forse la soluzione è banalmente nel rinunciare al peso delle decisioni e affidarsi ciecamente a un agente esterno, forse è il libero arbitrio il primo ostacolo da rimuovere sulla strada che conduce all’appagamento.

Sembrerebbe dunque facile, nel mondo in cui esiste la macchina della felicità, poter essere felici e invece più leggiamo il libro ed entriamo nelle vite dei personaggi che si raccontano a noi in tutta la loro umanità fragile e speranzosa, più capiamo che forse la vita rischierebbe addirittura di essere banalizzata da un concetto così assolutista e monolitico come la felicità e, forse, come accade a Pearl e gli altri personaggi, si può arrivare a stare bene ed essere felici di farsi bastare questo.

Note

La Macchina della Felicità di Katie Williams è pubblicata da Edizioni E/O, la traduzione a cura di Gianluca Fondriest.



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Mara Ricci

Serie tv, Joss Whedon, Jane Austen, Sherlock Holmes, Carl Sagan, BBC: unite i puntini e avrete la mia bio. Autore e redattore per Serialmente, per tenermi in esercizio ho dedicato un blog a The Good Wife.

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